Lettere
Qui troverai lettere di emigranti italiani dal 1820 fino al 1920, da Argentina, Brasile, USA ai loro parenti in Italia. Da archivi pubblici e privati o pubblicazioni.
1891, Italia, Giacomo Andreis
Fonte: tratto da N Revelli, Il mondo dei Vinti
E' possibile ascoltare questo documento recitato da un attore nella sezione Audio/Giacomo Andreis
Inoltre questo documento è stato utilizzato come fonte per un'attività scolastica. Per vedere l'attività passo passo clicca qui
“Sono Giacomo Andreis, detto Sofia, classe 1891, nato a Marmora nelle Langhe e di professione il contadino. Passavo le giornate a guardia delle pecore al pascolo. Quando mio padre scendeva in pianura a tagliare il grano , io lo accompagnavo: Io portavo l’acqua e aceto alla squadra, guadagnavo dieci soldi al giorno. Quando non andavamo nelle Langhe battevamo la pianura da una cascina all’altra sempre a fè i butalè cioè a fare i bottari, con quattro fette di polenta in tasca, a dormire nel fienile. Sembra di essere in guerra : la nostra vita era come una guerra che non finiva mai. Sono anche andato a lavorare in Francia, ma la vita era sempre quella.
Avevo tre fratelli negli Stati Uniti a lavorare nelle segherie. Mi hanno mandato i soldi per il viaggio e sono andato in America. Siamo partiti in ventidue di Marmora in una volta sola, uomini e donne. Era il 1907. Prima della partenza, le punture. Il mangiare? ‘N po baioca (un po’ di roba scadente) . Ci portavano il mangiare nelle cuccette, con le marmitte, come dare il rancio ai soldati. Il bastimento ballava, mangiavamo e rigettavamo, ma mangiavamo lo stesso. Eravamo trecento nel mio stanzone, le donne per conto loro. C’erano meridionali, toscani, lombardi, veneti, tutta bassa forza come noi. Siamo rimasti fermi due giorni nel mezzo del mare, c’erano le burrasche, le onde scavalcavano il bastimento, avevamo paura. Il capitano è venuto nelle nostre camerate, si è messo a gridare:” Se sentite la tromba a suonare saltate fuori, si salvi chi può”.
Ma poi la burrasca è passata, e abbiamo raggiunto New York.
Poi ho cominciato a lavorare con cento persone di Marmora per la stessa compagnia, guadagnavo sette lire e mezza di paga, per dieci ore al giorno. Eh, se ne faceva della fatica. C’erano anche i greci con noi, ma in squadre separate caricavano i vagoni. Noi italiani eravamo ben visiti perché lavoravamo. Il lavoro era pesante, nei boschi a buttare giù piante e noi nella segheria a fare tavole. Abitavamo in baracche di legno. E anche se lavoravamo forte riuscivamo a stare un po’ allegri: ballavamo, giocavamo alle carte e alle bocce, giocavamo tanto a pallone e pugno. Sono rimasto là quattro anni, poi sono tornato in Italia perché mia madre qua era da sola. I miei ventuno amici sono rimasti là, anche i miei tre fratelli sono rimasti là, ma non mi hanno mai scritto, anche mia moglie ha tre fratelli là”.